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Il teatro No, un baluardo della cultura giapponese



Vi sarà sicuramente capitato di sentire parlare del teatro No (anche conosciuto con Noh), una delle tre principali scuole recitative del Giappone, insieme al Kabuki e al Bunraku (tutti riconosciuti come patrimonio UNESCO nel 2003). Si tratta di una delle più antiche arti performative del Sol Levante, ma per gli occidentali rimane spesso oscuro e difficile da comprendere a causa del complesso simbolismo che lo caratterizza.

 

Come funziona il teatro No?

L’origine del teatro No risale alla seconda metà del 1.300, più precisamente la sua fondazione viene attribuita al drammaturgo Kan’ami (1333-1384), le cui idee sono poi state concretizzate dal figlio Zeami (1363-1443). Questa particolare forma interpretativa prende spunto dalle preghiere cantate rivolte alle divinità shintoiste.

Per tradizione, sul palco del No possono salire solo pochi attori, tutti rigorosamente uomini, che interpretano ruoli di ogni età e sesso avvalendosi dell’uso delle tipiche maschere che lo caratterizzano, dette Nohmen. Solitamente solo l’attore principale (Shite) ne indossa una, ma capita che anche l’accompagnatore (Tsure) possa farne uso.

Un’altra caratteristica distintiva del teatro No è l’accompagnamento musicale. In genere tale compito è affidato ad una piccola orchestra (Hayashi) composta da quattro suonatori. Questi ultimi si occupano di dare il giusto ritmo alla danza degli attori utilizzando flauti “fue” e diverse tipologie di tamburi giapponesi, come ad esempio lo “shimedaiko”, lo “otsuzumi” e il “kotsuzumi”.

Gli spettacoli No sono sempre drammi e seguono tutti il medesimo schema: un viaggiatore (un pellegrino o un monaco) apre la scena giungendo in un villaggio. Qui si imbatte in un abitante del luogo al quale chiede di raccontare una storia relativa al posto in cui si trovano. Alla fine della narrazione il viaggiatore scopre che il suo interlocutore non è altri che il protagonista del racconto stesso (lo Shite), il quale poi si dilegua.

Dopo qualche tempo lo Shite riappare mostrandosi però col suo vero aspetto. Scambia nuovamente qualche altra battuta col pellegrino e comincia una danza evocativa che rappresenta il momento più significativo dell’avventura narrata in precedenza. Poi sparisce ancora lasciando il primo attore da solo, il quale si “risveglia” e scopre di aver sognato tutto.

Certo, detta così non sembra molto intrigante come trama, soprattutto se si pensa che tutte le opere seguono le medesime linee guida. Questo è uno dei motivi per cui anche in patria è un tipo di recitazione poco seguita, tuttavia rimane un’esperienza da vivere almeno una volta se si ha la possibilità di farlo.

Non bisogna lasciarsi scoraggiare dalle barrire linguistiche o dalla lentezza dello svolgimento, poiché si tratta di un’arte in via d’estinzione che invece deve essere preservata.




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